Eventualismo degli alcunché e livelli del reale

L’analisi della struttura del reale, inclusa la mente, necessita in primo luogo di delimitare il significato dei termini che si usano. Anche il termine significato deve essere precisato perché risulterebbe vano assegnare un significato a un termine, o in generale a un segno e a un segno linguistico, se non è chiaro che cosa s’intende per significato. Se per l’analisi del reale usiamo parole, allora, si può restringere la nozione di significato al significato dei segni del linguaggio proposizionale. In questa prospettiva minimale, il significato è formato da una doppia relazione: quella che si pone tra un segno e una struttura noetica e quella tra un segno e un alcunché cui esso si riferisce.

La prima relazione fa sì che il segno stia al posto di un contenuto della mente, o meglio, di informazioni che sono state elaborate e che sono ciò cui il segno indica. Per esempio, il termine ‘cane’ è quel segno che sta al posto di quella struttura noetica formata da diverse informazioni che sono legate tra loro per formare la struttura noetica di cane che si può chiamare il concetto di cane; una struttura che può essere espressa oltre che dal lessema ‘cane’ anche da altri segni come quelli figurativi quale un disegno di un cane. Si tratta di quello che è chiamato significato connotativo e che in termini semiotici costituisce il semema di un lessema.

La seconda relazione si fonda sull’indicalità dei segni, cioè il fatto che essi indicano uno o più alcunché; in tal modo si possono usare quando si formulano asserti che parlano di questi alcunché e così li indicano anche se non sempre in maniera concreta come si fa quando si indica con un dito un oggetto; l’indicalità dei segni fa sì che il significato sia inteso come il riferimento a qualche alcunché che è esterno a essi; la loro denotazione per cui un segno è usato nelle espressioni proposizionali o nella dinamica mentale non proposizionale per parlare indicalmente di un determinato alcunché che può essere fenomenico o non fenomenico.

La prima relazione, che chiamo struttura noetica del segno e la seconda, struttura indicale del segno, sono correlate per cui l’intero processo di significazione è formato dal contenuto noetico, da quello semiotico o semema, dall’alcunché correlato (sia esso mentale o fenomenico) nonché dalle relazioni che si instaurano tra di essi.

Sulla base di queste precisazioni sulla nozione di significato sono esaminati la nozione di reale e l’espressione livelli del reale.

L’analisi del linguaggio può essere utile per quella ontologica, ma quest’ultima non inizia necessariamente da quella del linguaggio né tanto meno può racchiudersi entro di essa anche in un ampio senso semiotico.

Considero per primo il termine reale. Tale termine può essere semanticamente determinato nel caso in cui lo si usi per riferirsi a enti fenomenici rilevabili dalla percezione o da specifiche strumentazioni scientifiche, ma non lo è se ci riferisce al complesso di tutto ciò che si considera come esistente. In quale modo, allora, si può precisare, almeno in sede provvisoria, il significato di tale termine per far sì che quando lo si usa sia chiaro a che cosa ci si riferisca?

Molte ricerche filosofiche, non solo nella cultura occidentale, seppur non sempre in modo esplicito, hanno considerato questa domanda e sono state fornite, com’è noto, diverse risposte; tra le molte risposte vi sono, da un lato, quelle che considerano la domanda e la possibile risposta all’interno di un’analisi del linguaggio proposizionale, cioè quella degli asserti in cui compare tale termine; dall’altro, quelle secondo cui tale termine è riferibile solo a una costruzione della mente che non ha un denotato ben definibile come un qualche alcunché al di fuori di essa. Non pochi filosofi si sono collocati entro queste prospettive, per cui anche l’analisi del reale si potrebbe concentrare se non addirittura ridurre all’analisi del linguaggio o meglio degli asserti che usano questo termine; in tale prospettiva è fondamentale investigare le modalità e le condizioni in cui è corretto usare il termine reale nonché la veridicità delle proposizioni che lo usano e anche un possibile riferimento semantico.

Molti altri filosofi e psicologi racchiudono il termine reale entro la dimensione cognitiva per cui, come sostiene Putnam, “gli oggetti non esistono al di fuori dei nostri concetti”; il termine reale è concepito come un segno che può essere considerato solo attraverso un’analisi semiotico-cognitiva che può, o addirittura deve, prescindere dal fatto che tale termine possa riferirsi a un alcunché considerato al di fuori di ogni sistema di segni.

In questa sede, non intendo esaminare le diverse prospettive, e presento una concezione che si differenzia da esse e che può essere utile per precisare il significato del termine reale (o il sinonimo realtà) in modo da procedere oltre e investigare il tema della struttura degli alcunché e dei livelli ontologici del reale.

Il termine reale, almeno da Parmenide, coinvolge, da un lato, il tema ontologico relativo alla domanda ‘che cosa esiste?’ e dall’altro, quello riferito dello stato degli asserti di esistenza.

Se non si riduce il reale a un mero contenuto della mente, né a un segno del linguaggio cui assegnare un significato anche prescindendo da un riferimento veritativo o almeno controllabile, allora deve essere indagato rispondendo alla domanda ‘che cosa esiste?’, senza prescindere ma anche senza ridurre l’analisi ad aspetti semiotici o cognitivi. Ci si chiede, quindi, innanzi tutto se sia possibile rispondere alla domanda ‘che cosa esiste?’ prescindendo dal fatto che la domanda stessa e la susseguente indagine per fornire una risposta si pongono in termini noetici e linguistici; tuttavia, se non si potesse prescindere, allora, si dovrebbe accettare quanto afferma Goodman, secondo cui non ha senso “chiedersi cosa esiste indipendentemente dai nostri modi di vedere e di costruire”.

Secondo alcune prospettive indicate, dato che le strutture noetiche e quelle del linguaggio sono molto coinvolte nelle analisi filosofiche, invece che chiederci che cosa esiste, ci dovremmo semplicemente chiedere che cosa significa la domanda ‘che cosa esiste?’ O quali sono i contenuti mentali o cognitivi coinvolti nella formulazione di una proposizione quale quella ontologica primaria: che cosa esiste? Se è pur vero che la domanda è posta sempre in base a costrutti linguistici nonché ad altri noetici, ed è anche vero che inevitabilmente si usa il linguaggio per rispondere a una tale domanda, allora si potrebbe sostenere che questa domanda è il risultato di tali processi per cui una possibile riposta non può che provenire da analoghi processi quindi da analisi linguistiche o analisi cognitivo-concettuali; se così fosse, allora, la domanda può essere mal posta a tal punto che sarebbe inutile o vano cercare una risposta perché in ogni caso tale risposta sarebbe inficiata da strutture linguistiche o da strutture noetiche: in tale maniera appare inutile ogni sforzo, ma è inutile anche quello di quei filosofi che intendono sostenere che sarebbe opportuno che non si ponesse la domanda o ancor più che non si usasse il termine reale.

Tuttavia, anche con riferimento a Kant, è utile rilevare che ciò che si pensa del reale, e non solo di se stessi, deriva dalla struttura della propria mente e in seguito anche dal linguaggio che si usa, supposto che si usa perché si potrebbe anche non usarlo; ciò non significa che il reale possa essere investigato solo con riferimento alle strutture noetiche e a quelle linguistiche. In effetti, per esempio, nel campo della ricerca scientifica, ciò non accade; non solo a partire da Kuhn, si è consapevoli che il reale fenomenico è analizzato sulla base delle teorie che sono state formulate o che si stanno formulando (i paradigmi) e che per farlo sono necessari specifici strumenti, incluso il linguaggio naturale o quello matematico; tuttavia, in ambito scientifico, non si rivolge l’attenzione di ricerca, per esempio sulle particelle elementari o sui quark, analizzando i nostri costrutti concettuali o quelli linguistici ma si usano tali costrutti per investigare com’è fatto il mondo, e in particolare particelle elementari o quark che si ritiene esistano nel mondo fenomenico così come in esso esistono gli oggetti che si percepiscono; se gli scienziati fossero filosofi riduttivisti, nel senso indicato, non potrebbero fornire alcuna spiegazione del reale, perché dovrebbero solo intrattenersi nell’esame dei diversi linguaggi che usano o delle relative strutture concettuali; questo compito non è proprio della ricerca scientifica, bensì di quella svolta dagli epistemologi, anche se alcuni scienziati si occupano di questi temi; in particolare, in ambito fisico, a partire dalla nascita della meccanica quantistica e della ricerca sulle particelle elementari, quali protoni, bosoni, o muoni. I fisici, per esempio, non ritengono che una particella elementare sia un oggetto del linguaggio o della mente, bensì un oggetto reale o fisico considerato esistente nel mondo a seguito di controlli teorici o sperimentali, quali quelli condotti negli acceleratori di particelle.

Un esame analogo si può fare con riferimento a tutti i soggetti che vivono nel mondo e che hanno un apparato percettivo, nonché anche un SNC in grado di elaborare le informazioni raccolte sul e dal mondo. Nella dimensione percettiva, propria di una parte della conoscenza ordinaria, non si ritiene che per sapere che cos’è l’oggetto che si sta percependo sia necessario analizzare il segno che si usa per riferirsi a quell’oggetto o ancora esaminare il proprio bagaglio concettuale (o generalmente psichico) relativo a quell’oggetto; se così fosse non si saprebbe mai cosa si sta percependo e ciò che si sta percependo in un dato istante è qualcosa che è al di fuori della dimensione del linguaggio (che permette di usare un segno per riferirsi ad esso) e delle strutture concettuali; perciò, si può operare nel mondo e manipolare gli oggetti, in base alle proprie percezioni per cui, per esempio, si può evitare un oggetto che si sta percependo che sta per cadere sulla propria testa; se non fosse così si potrebbe solo aspettare che ci cada in testa, ma anche in quel caso non sono coinvolte le strutture concettuali o linguistiche. Ciò non significa che non si pensi e si percepisca con il linguaggio, anche se non sempre accade, e che non si pensi sulla base di strutture concettuali formulate nella propria mente, per cui ogni percezione è anche correlata con le informazioni che si trovano immagazzinate nella mente e che permettono di classificare un determinato oggetto e di nominarlo con un segno; tuttavia, non si può affermare che senza un segno o un concetto non si possa evitare un oggetto che sta per caderci sulla testa.

Sia per lo scienziato sia per ogni uomo, il reale è qualcosa di diverso dal linguaggio e dai concetti, anche se linguaggio e concetti sono anch’essi parte del reale e pur in modi diversi incidono non tanto o solo sulle asserzioni che specificano i diversi enti reali, bensì su come li consideriamo e sulla relazione che s’intende stabilire con essi.

Se è pur vero, quindi, che in molte condizioni, ma non in tutte, ciò che si considera come reale è influenzato anche dal linguaggio e dalle strutture noetiche, non vuol dire che siano l’uno o le altre che permettano di assegnare il predicato di esistenza a un alcunché e in generale a quell’insieme infinito costituito da tutti gli alcunché ritenuti esistenti che indichiamo con il termine reale. In effetti, si può considerare come esistente un alcunché anche senza avere un segno per riferirsi ad esso né una struttura concettuale in senso stretto per delimitare la sua consistenza reale; ciò accade per gran parte degli esseri viventi ed è avvenuto anche per i nostri antichi progenitori, come l’Homo Habilis o l’Homo erectus, che potevano formulare generalizzazioni sugli enti del mondo.

Queste osservazioni portano a esplicitare una tesi fondazionale: analizzare il reale non si riduce a un esame dei segni che si riferiscono ad esso né dei concetti che si usano per formularne una teoria.

Sia nel pensiero scientifico sia in quello ordinario l’attenzione è rivolta direttamente al reale al fine di conoscerlo e di operare su di esso; per questo, anche se si usano analisi semiotiche o concettuali, l’obbiettivo è il reale e non il linguaggio o le strutture cognitive.

Questi chiarimenti permettono di iniziare a rispondere alla domanda ‘che cosa esiste?’ soffermandosi sul termine esiste.

Il primo significato del termine esiste è quello che chiamo radicale che è di natura percettiva, per cui si predica l’esistenza di ciò che è percepito, al di là di errori di percezione che in effetti, sono solo casi eccezionali, perché la percezione è un processo biologico, risultato dell’evoluzione della vita sulla Terra per far sì che si possa conoscere il mondo così come esso è; in altri termini, la percezione permette di determinare la presenza di un alcunché nonché la sua specificità, cioè che cosa esso è in modo da operare con efficacia su di esso come, per esempio, afferrare un oggetto o aggredire una preda. La predicazione di esistenza ha un’origine radicale intrinseca al processo percettivo: anche i filosofi da bambini si sono basati su tale radicalità per assegnare esistenza agli enti, nonché in seguito per usare un indicale segnico per riferirsi ad essi e per formulare anche il concetto di esistenza.

Tuttavia, non si può affermare che questa radicalità di esistenza sia applicabile solo ai contenuti delle percezioni, perché in primo luogo ogni soggetto avverte la presenza di sue condizioni o di stati mentali che non sono percepibili ma che accerta per via introspettiva o per esplicita consapevolezza, e che sono presenti in lui in un determinato istante, come per esempio sentirsi allegri o sentire dolore; in tal modo, possiamo asserire che tali stati esistono nel nostro sé o nella nostra mente come esistono gli oggetti del mondo; ma, ancora un volta, queste asserzioni di esistenza sono possibili in quanto basate sul processo di assegnazione di esistenza che procede in età evolutiva e che è radicale perché è inserito all’interno dei processi percettivi.

Esistere in questo significato radicale percettivo, è riferito in primo luogo a se stessi, come accertamento consapevole, e a ogni alcunché del mondo che è stato percepito; ciò non vuol dire affermare che esse est percepì, perché la radicalità percettiva pone una differenza tra il sé che percepisce e un alcunché che è al di fuori della sua percezione, cioè sta nel mondo; proprio come la percezione della gazzella da parte di un leone attesta l’esistenza della gazzella non nella sua mente né nella sua percezione ma nel mondo e tale radicalità gli permette di inseguirla, predarla e divorarla; questa condizione, ovviamente, include l’esistenza di una rappresentazione cerebrale, o mentale, che sta al posto della gazzella esistente nel mondo: una gazzella esistente nel cervello o nella mente e una gazzella esistente nel mondo.

La radicalità di esistenza è un aspetto fondamentale per la considerazione e l’assegnazione di esistenza, e in tal modo è possibile anche chiarire la natura degli asserti di esistenza; in questo caso gli asserti di esistenza, che contengono indicali, sono semanticamente riferibili a un alcunché del mondo che ha generato una percezione ed essi sono veri o falsi in un mero ma rilevante senso di corrispondenza o isomorfismo tra un asserto e un alcunché.

Il primo significato del termine esistere, il to on, coincide con quello di essere, per cui ciò che esiste è considerato come ciò che è stato percepito e anche ciò che potrà essere percepito in qualsiasi istanza percettiva.

Da questa modalità radicale di esistenza, o meglio il significato del termine esistere e la predicazione di esistenza agli alcunché percepiti, e dall’attestazione di predicazione di esistenza rivolta al proprio sé o semplicemente a se stessi, analogamente a quanto avviene per gli alcunché percepiti, si formulano altri significati che non sono riferibili alla radicalità percettiva o all’attestazione predicativa di esistenza a se stessi, ma che ne riportano il nucleo fondamentale; secondo tale nucleo un alcunché sta nel mondo o, in senso più ampio, esiste, così come sta nel mondo o esiste un alcunché che è stato percepito e, parimenti, ma in modo meno forte, quell’alcunché che ognuno è, o meglio che attesta che è.

Perciò, si può assegnare il predicato di esistenza, e quindi di appartenenza al reale, a qualsiasi alcunché non fenomenico, se esso si considera analogamente esistente come esistente è un alcunché entro la radicalità percettiva. Chiamo questo significato di esistenza significato analogico d’esistenza: un ente è considerato esistente come lo per analogia un ente percepito.

Sulla base di quanto asserito il termine esistere è usato per riferirsi a tutto che ciò che esiste nella radicalità percettiva ontologica e nella susseguente e ampia significazione analogica che può essere relativa a enti esistenti ma non percepibili, proprio come i propri stati mentali, come alcuni oggetti della fisica od ancora per altri formulati in ambiti diversi di sapere quale mitologia, filosofia, teologia. In tutti questi ambiti il significato radicale percettivo dell’esistere è fondamentale perché si accetta sempre che un qualsiasi alcunché è considerato esistente perché esso è esistente come è esistente un oggetto che è stato percepito, salvo condizioni di errore, di patologie od altro.

Alle modalità d’esistere radicale e analogica se ne deve aggiungerne un’altra, che chiamo operazionalità d’esistenza; in questa modalità ciò che esiste è ciò su cui si può operare in base alla radicalità percettiva; in questa modalità è inclusa la nozione di relazione: per cui ciò che esiste è considerato come ciò con cui si può avere una relazione.

Nella teoria che si sta presentando radicalità percettiva, analogia d’esistenza e operazionalità d’esistenza sono tre aspetti fondamentali della nozione di esistenza, di cui si deve considerare la diversità di condizione d’esistenza.

Con riferimento a queste tre modalità d’esistenza è necessario distinguere la condizione di esistenza; nella radicalità percettiva l’esistenza ha un fondamento immediato e controllabile epistemologicamente, seppure relativo alle condizioni percettive, incluse le strutture noetiche e linguistiche; nell’analogia di esistenza, invece, questa esistenza è suppositiva a seconda degli alcunché considerati esistenti e in tal caso l’esistenza suppositiva necessita di determinati controlli che possano permettere di considerarla al pari di quella della radicalità percettiva; nella terza, l’operazionalità d’esistenza ha un fondamento di minore forza perché sebbene nella operazionalità si controlla l’esistenza, questa è riferita alla operazionalità e non direttamente alla esseicità degli alcunché che, in effetti, può anche non essere implicata e nota.

A questo punto in base ai significati radicale percettivo, analogico e operazionale del termine esistere, e di quello più ampio di reale, esamino brevemente la prima parte della domanda ‘che cosa esiste?’, prima di presentare alcune indicazioni sulla struttura del reale e su suoi livelli.

Se l’esistere è inteso nei modi indicati allora il che cosa? deriva direttamente dalle tre modalità d’esistere, per questo il che cosa? è costituito da: a) alcunché che possono essere percepiti chiamati alcunché radicali, b) alcunché, chiamati analogico-suppositivi, la cui esistenza è posta per significazione analogica suppositiva e in tal modo essi possono essere anche non fenomenici come gli alcunché della mente in cui vi sono concezioni e concetti quali quelli filosofici o teologici; c) alcunché, chiamati operazionali, che sono tali in quanto si può operare su di essi sulla base della radicalità percettiva.

A questo punto dell’analisi si può superare la prospettiva del soggetto e dell’assegnazione di esistenza e occuparci degli alcunché con la sola predicazione di essere esistenti nei tre modi indicati, cioè di appartenere al reale, al di là di ogni assegnazione d’esistenza da parte di un qualsiasi soggetto.

Prima di occuparci degli alcunché nel loro stato ontico a-soggettivo, è fondamentale chiarire che nella concezione che si sta presentando è possibile distinguere tra gli alcunché considerati entro una prospettiva del soggetto e quelli al di fuori di essa. L’esempio più chiaro di questa distinzione può ritrovarsi nella dimensione percettiva in cui, da un lato v’è la percezione di un alcunché: l’alcunché prospettico che è formulato nella mente; dall’altro, l’alcunché che è posto al di fuori della percezione e quindi della mente: l’alcunché che può essere osservato da un numero indeterminato di prospettive; tale alcunché lo chiamo l’alcunché residuale, considerato come ciò che onticamente resta e resiste alle infinite prospettive. L’alcunché residuale è l’alcunché onticamente esistente anche in assenza di una prospettiva e quindi di un osservatore che lo attenziona o come residuo, o ciò che resta dopo ogni possibile prospettiva.

In quale modo si può considerare che sia questo alcunché residuale? Non di rado lo indichiamo con termini quali ente od oggetto del reale ritenendo che sia un porzione esistente del reale e tale porzione è considerata come un alcunché che ha quei caratteri fondamentali che sono determinati dal principium individuationis per cui esso si distingue da ogni altro; tale distinzione è fondata su specifici caratteri che determinano la sua esseicità (ciò che esso è) e tra questi vi sono quelli di porsi in un determinato tempo e in un determinato spazio.

Tuttavia, si può ritenere che sebbene tutti gli alcunché possiedano caratteri determinati dal principium individuationis non tutti si pongono entro lo spazio e il tempo, come accade per gli alcunché trascendenti le condizioni spazio-temporali. A questa categoria di alcunché appartengono gli enti della teologia, della narrativa, della mitologia od ancora quelli formulati dalla propria mente. In questa sede non mi occupo di tali enti, ma analizzo quelli che possono essere recepiti nella radicalità percettiva o più in generale quelli considerati come appartenenti al mondo fenomenico, cioè gli oggetti materiali o fisici.

Tali alcunché, al di là delle specificità singolari, possono essere considerati come quegli alcunché od oggetti che hanno due proprietà fondamentali: la massa e il volume. Massa e volume che non sono in alcun modo concepiti o determinati dalle prospettive del soggetto, ma sono propri di tali oggetti, o secondo la terminologia introdotta, sono proprietà residuali, proprietà (o attributi) di questi oggetti come alcunché residuali e come tali sono proprietà della loro esseicità. Il loro volume è determinato dallo spazio tridimensionale che ogni alcunché occupa. La massa, invece, è determinata dalla sua massa inerziale che è misurata dall’accelerazione di un corpo quando gli si applica una forza, per cui se la massa è più grande sarà minore l’accelerazione generata da un’eguale forza. Tuttavia, com’è noto, la materia, costituita da oggetti che hanno massa e volume, non completa ciò che si considera esistente da un punto di vista materiale o fisico, perché è presente anche l’energia come carattere del mondo fisico, che non è fatta dello stesso materiale degli oggetti fisici: da qui la nota equazione di Einstein che indica che l’energia ha a che fare con la massa ma non è la massa bensì essa si genera quando ad una massa è applicata un’accelerazione; o meglio l’energia di una massa m, secondo la nota formula di Einstein,è il risultato della sua massa per l’accelerazione al quadrato della velocità della luce.

Senza approfondire questa relazione tra massa ed energia, in questa sede è utile rilevare due aspetti; da un lato, che il reale fenomenico sebbene sia costituito da alcunché od oggetti che hanno massa e volume non lo completano neppure da un punto di vista fisico perché oltre agli oggetti che hanno massa e volume, v’è anche energia che può essere generata agendo su una massa; dall’altro, che gli oggetti fisici sono tali perché le masse che li costituiscono sono legate tra loro dalle quattro forze fondamentali del mondo fisico; un aspetto questo che sarà rilevante per comprendere la struttura degli alcunché.

Sulla base di queste osservazioni, considero gli oggetti fisici macroscopici.

Ogni oggetto macroscopico è un alcunché che, come è stato rilevato, possiede massa e volume ed è costituito da molecole, atomi e particelle; consideriamo, per esempio, una mela, che per il principio di individuazione possiede caratteri propri residuali che sono, da un lato, quello di essere collocata in uno spazio determinato e in un istante o periodo del tempo e, dell’altro, quelli che sono relativi a ciò che la rendono individuata cioè le molecole, gli atomi e le particelle che la costituiscono e quindi le forze nucleari che preservano la sua struttura.

Sostenere che la mela è nello spazio e nel tempo, da un lato, e che essa è costituita da molecole che sono formate da atomi e particelle, dall’altro, può portare a chiedersi se la mela è formata solo da masse e volumi (la sua e quella dei suoi costituenti) o anche da relazioni tra le diverse masse e volumi; un oggetto è tale perché vi sono relazioni al suo interno e al suo esterno che lo mantengono nel tempo, incluse quelle relative al suo volume entro uno spazio e la sua massa entro un determinato tempo e una specifica condizione.

Un alcunché è considerato tale solo se si mantiene nel tempo e nello spazio e se si preservano le relazioni tra le masse che lo costituiscono ma, come sappiamo, se si modificano le relazioni tra spazio e tempo ed essi sono considerati, come afferma la relatività, una sola dimensione allora, può essere difficile capire che cosa sia un alcunché riferito a spazio e tempo, ma in questa sede non si considera questa condizione.

Queste riflessioni su massa e volume e sulla costituzione degli alcunché, permettono di chiedersi e di indicare come essi sono costituiti.

Gli alcunché, e quindi anche gli oggetti fisici, sono veramente enti delimitati in massa e volume, o invece pur essendo anche tali sono costituiti in modo differente? La loro esseicità, il loro esistere o essere quello che sono, non è data solo dai suoi costituenti bensì dalle le relazioni tra di essi le quali fanno sì che siano oggetti con massa e volume. I costituenti senza relazioni non individuano alcun oggetto; in effetti, per esempio, protoni e neutroni non costituiscono il nucleo di un atomo se non agisce la forza nucleare forte che stabilisce specifiche relazioni tra neutroni e protoni mantenendo legati con i gluoni i loro quark e così mantenendo il nucleo di un atomo.

Un alcunché esistente, allora, può essere ritenuto come una struttura relazionale che mantiene la sua esseicità, cioè il suo to on; se ci si riferisce agli alcunché fenomenici si rileva che essi hanno massa e volume, come indicato, e sono collocati nel tempo; la loro massa e il loro volume sono tali in quanto è presente una struttura relazionale che indico come matrice relazionale esseica, per cui un alcunché è una matrice relazionale esseica, dove l’aggettivo esseico si riferisce al suo stato ontico, al di fuori di ogni osservatore.

Le relazioni nucleari forte e debole non hanno massa e volume ma sono tali da correlare in modi differenti masse e volumi che sono i costituenti di massa e volume di ogni alcunché; perciò, anche tali relazioni sono considerate esistenti.

Nell’esseicità di un alcunché, quindi, rileviamo gli elementi di massa e volume e le relazioni che non hanno né massa né volume.

In tale matrice relazionale di un alcunché, MR(a), dove a è un alcunché, vi sono quattro aspetti: a) le relazioni interne tra i suoi costituenti di massa e volume, cioè quelle che mantengono la sua struttura e la sua esseicità riferita al tempo e allo spazio in cui ogni alcunché è collocato.

Vi sono relazioni interne di diverso livello in ogni alcunché; quelle che generano la sua struttura macroscopica e quelle che generano la sua struttura microscopica; per esempio, da un lato, le parti percepibili o anche osservabili da strumentazioni scientifiche, come il tappo o il fondo di una bottiglia; dall’altro, le molecole che costituiscono queste parti, o ancora il loro tessuto atomico. Si possono intendere queste relazioni come ciò che genera i diversi livelli costitutivi di un solo alcunché, per cui ogni alcunché è costituito da livelli diversi di reale. Un’analoga analisi la si può condurre per la dimensione microscopica in cui si possono indicare i diversi livelli di reale, come quelli molecolari, atomici, o subatomici. Essi, com’è noto, sono tali sulla base delle relazioni che sono stabilite da tre delle quattro forze fondamentali, cioè, l’elettromagnetismo e le forze nucleari debole e forte.

Nella matrice relazionale che costituisce ogni alcunché vi sono anche, b), relazioni esterne, come quella del volume entro uno spazio, e ogni altra relazione che correla un alcunché con l’ambiente fisico in cui è inserito. Anche in tale sistema di relazioni possiamo indicare vari livelli relativi ai piani della dimensione macroscopica e di quella microscopica.

Inoltre, (c), è necessario considerare ogni alcunché da un punto di vista della sua dinamica, D, cioè in base al mantenimento della sua identità esseica nel tempo. Ogni alcunché è sempre in cambiamento per cui, in ogni istante del tempo si può modificare in alcune delle sue parti macroscopiche o microscopiche pur mantenendo l’identità, o almeno sino a quando tali modificazioni alterano anche tale identità.

Ogni alcunché (d) si colloca nello spazio e nel tempo che sono due aspetti relazionali; la relazione tra esso e lo spazio in cui si colloca il suo volume e la sua collocazione nel tempo.

La matrice relazionale di un alcunché a è così definita: MR(a) = ({relazioni interne}, {relazioni esterne}, Spazio, tempo, D).

Sulla base di queste indicazioni, ogni oggetto o più in generale ogni alcunché è una matrice relazionale secondo cui ciò che esso è non è formato solo dai suoi costituenti di massa e volume (per esempio, molecole o atomi), bensì dalle relazioni, come le forze nucleari, che collegano tali costituenti di massa e volume e che in tal modo mantengono la sua esseicità, cioè ciò che è, o secondo la terminologia introdotta la sua matrice relazionale esseica.

Se tale matrice relazionale è posta nel tempo e nello spazio allora ogni alcunché è una matrice relazionale in un contorno spazio-temporale; in modo abbreviato si può affermare che un tale alcunché è un contorno dello spazio-tempo.

Al modello degli alcunché presentato si deve aggiungere che le relazioni matriciali sono soggette a cambiamenti e che lo spazio e il tempo sono dimensioni continue e anch’esse modificabili; in tal senso, lo spazio si allunga o si restringe così come il tempo si espande o si contrae, di cui è un esempio la curvatura dello spazio-tempo in specifiche condizioni gravitazionali.

Da queste indicazioni deriva che per gli alcunché la loro esseicità è tale solo relativamente alle condizioni al loro interno e a quelle al loro esterno; questa concezione fa sì che gli alcunché, nella loro esseicità matriciale, sono al contempo attuali e inattuali. Attuali, all’interno di uno spazio e in un determinato istante del tempo, incluso quello in cui li possiamo osservare; da qui la visione quantistica secondo cui l’osservato è sempre relativo alla misurazione che se ne effettua in un dato istante e con determinati strumenti. Tale affermazione non sostiene una concezione antirealista, come a volte si crede, perché in quell’istante di osservazione l’oggetto o il sistema sono onticamente presenti nel mondo, proprio come accade per particelle elementari che sono emesse con il bombardamento di un protone in un acceleratore e che hanno un’esistenza quasi effimera, o meglio calcolabile in milionesimi di secondo, ma in senso ontico esse esistono come esistono gli oggetti macroscopici.

L’attualità degli alcunché, però, sebbene includa l’attualità della loro osservazione e in tal caso è correlata alle misure dell’osservazione, non è riducibile a essa perché è considerata come uno stato residuale dell’alcunché, uno stato nello spazio-tempo che è uno stato ontico e non il risultato di un processo di osservazione da parte di un soggetto o di uno strumento.

La loro inattualità, invece, per i modi in cui sono stati considerati gli alcunché come contorni nello spazio-tempo o matrici relazionali in un contorno spazio-tempo, fa riferimento al fatto che essi sono soggetti a una continua dinamica di modificazione per cui essi si collocano entro quella che chiamo dimensione eventuale, cioè la possibilità di essere attuali in un dato contorno spazio-tempo, ma anche di presentarsi in successive attualità nello spazio-tempo, o persino contemporaneamente come si sostiene in fisica quantistica, e in tal modo risiede la loro inattualità.

Gli alcunché si presentano nelle diverse attualità, ma sono anche passibili di continue presenze attuali e in tal modo la loro esseicità è inattuale.

L’attualità e l’inattualità degli alcunché si collocano entro la dimensione di quello che si denomina eventualismo degli alcunché che si svolge nella dinamica tra attualità e inattualità.

L’esseicità degli alcunché, intesa come una matrice relazionale in un contorno spazio-tempo, e la loro dinamica tra attualità e inattualità fanno sì che essi si collochino nella dimensione ontica dell’eventualità che permette di considerare il reale come reale eventuale e su tale nozione si fonda quella concezione che chiamo eventualismo.

L’eventualità degli alcunché può essere intesa in due modi: gnoseologico e ontico: l’eventualità primaria ontica, originaria o archetica, è l’eventualità che prescinde da qualsiasi soggetto, mentre quella secondaria o gnoseologica è quella che coinvolge il soggetto o l’osservatore ed è denominata eventualità prospettica.

L’eventualismo gnoseologico o prospettico afferma che ogni alcunché è eventuale in quanto è soggetto a infinite prospettive che lo possono osservare in ogni sua specifica attualità; queste prospettive sono teoricamente in un numero infinito (in termini matematici hanno una cardinalità più ampia di quella dei numeri reali) perciò ogni alcunché è eventuale dal punto di vista delle prospettive: ogni alcunché è prospetticamente infinito.

L’eventualità prospettica è dimensionata sulle prospettive, osservazioni e misurazioni e ciò si allinea con la concezione della fisica quantistica relativa alla relazione tra oggetto e osservazione. La presenza di queste infinite prospettive genera alcunché infinitamente prospettici, ma ciò non significa che la loro esseicità sia prospettica. Gli alcunché si possono considerare come il residuo di tutte le possibili prospettive o, se si vuole, come l’unione di tutte le prospettive, proprio come un alcunché nella fisica quantistica può essere considerato, o è, al contempo, onda e corpuscolo. Da qui si evita la riduzione antirealista del reale alle prospettive, osservazioni o misurazioni su di esso.

All’eventualismo prospettico si correla l’eventualismo ontico o archetico.

Gli alcunché al di fuori delle prospettive e con riferimento alla loro esseicità, sono onticamente eventuali, perché si svolgono in una continuità di attualità e inattualità per cui in ogni istante della loro attualità nello spazio-tempo sono sempre eventuali: ogni alcunché è onticamente eventuale perché può presentarsi sempre in una nuova attualità.

Analogamente a quanto affermato in senso gnoseologico e prospettico, ogni alcunché è il residuo ontico, o esseico, che si mantiene nella dinamica attualità-inattualità; in altri termini, è l’insieme di tutti i suoi stati eventuali nello spazio-tempo in cui si preserva la sua matrice relazionale o la struttura dei suoi costituenti, in particolare, di quelli massa e volume nel caso di alcunché fenomenici. Per questo, anche la sua esseicità, il suo to on, il che cosa esso è, non è considerata come determinata nell’attualità ma è eventuale: l’esseicità dell’alcunché è essa stessa eventuale, da qui la sua eventualità archetica.

L’attualità e l’inattualità entro l’eventualità archetica, da cui deriva nel senso indicato quella gnoseologica, sono possibili sulla base della costitutività degli alcunché che è stata indicata come matrice relazionale che è la struttura di ogni alcunché; la proprietà degli alcunché di essere soggetti a modificazioni della matrice relazionale (relazioni interne ed esterne) e quindi anche dei loro costituenti, fa sì che essi siano eventuali. Se non fosse così, sarebbero quello che sono solo e unicamente in ogni determinata attualità, così come per molti versi era stato indicato dalla fisica classica diversamente da quanto sostenuto in fisica quantistica.

L’eventualità archetica, quindi, si riferisce al fatto che ogni alcunché è costituito e sussiste come matrice relazionale in un contorno spazio-tempo, che è sempre soggetta alla dinamica tra attualità e inattualità: ogni alcunché si svolge nell’ambito dell’attualità che è e in quella che può essere: ogni alcunché è sempre eventuale che sia e che non sia ed esso è in quanto è eventuale che sia. L’eventualità di essere è propria di ogni alcunché perciò come essente proviene dall’eventuale e si colloca nell’eventuale. La sua esseicità archetica è un’esseicità eventuale.

L’eventualità archetica degli alcunché è infinita in un triplice modo: in riferimento al numero degli alcunché, alla loro eventualità di essere in presenza e a quella di essere sempre e con continuità in presenze diverse. L’eventualità è quindi correlata con la continuità, per cui ogni alcunché si colloca sempre nell’eventualità come eventualità infinita continua.

L’eventualità infinita continua è una tensione di ogni alcunché che è sempre in presenza, o attualità, e in eventualità, per cui l’eventualità (o realtà eventuale) è continuamente in presenza negli alcunché che sono continuamente in tensione di attualità. Ogni alcunché è al contempo presenza come eventualità presente e tensione di presenza come eventualità che può realizzarsi.

L’eventualità infinita continua porta con sé i caratteri dell’inalterità e dell’inattualità.

L’inalterità si riferisce alla struttura di ogni alcunché come eventualità in una specifica presenza. Nella presenza eventuale ogni alcunché sussiste a se stesso in modo che resta inalterata la sua unicità di essenza: l’esseicità di ogni alcunché è ciò che esso è al di là delle specifiche eventualità in presenza. L’esseicità riguarda le presenze e le eventualità non ancora presenti e in tal senso esso è onticamente residuale.

Ogni alcunché è allo stesso tempo ciò che è e ciò che può essere: ogni alcunché può eventualmente essere ogni altro alcunché: in ciò risiede la sua inalterità legata all’eventualità che è fondata sulla matrice relazionale di ogni alcunché.

Da ciò deriva il secondo carattere dell’alcunché: la sua inattualità.

L’inattualità è correlata e svincolata dall’eventualità. Ciò che è continuamente e infinitamente eventuale è inattuale perché, pur collocandosi entro l’eventualità presenziale, è al contempo sempre e continuamente fuori di essa in quanto è in tensione eventuale. Ogni alcunché si colloca entro e fuori l’eventualità: essere fuori dall’eventualità continua e infinita significa essere nell’inattuale.

Assegnare il predicato di essere inattuale per ogni alcunché significa affermare che esso è in atto in una o più specifiche presenze eventuali, ma allo stesso tempo è sempre in tensione verso le eventualità e in tal modo è al di là di queste presenze. Ogni alcunché è sempre in tensione ed è così oltre tutte le sue eventualità in presenza e si colloca continuamente nell’eventualità di essere in nuove presenze. Essere eventuale significa essere al di là di ogni specifica eventualità. Se l’eventualità si esprime in singole presenze che come tali sono in atto e in presenze possibili, allora, essa si esprime nell’inattualità, in ciò che è in atto e che è fuori da ogni specifico atto.

L’inattualità di ogni alcunché consiste, quindi, nell’essere fuori ed oltre ogni specifica attualità in direzione di assumerne un’altra da cui sarà ancora al di là di essa.

I caratteri dell’inalterità e dell’inattualità delle eventualità infinite sono intrinseci a quella che è stata denominata eventualità o reale eventuale e in questa concezione gli alcunché sono residuali perché sono il residuo della dinamica eventuale di attualità e inattualità.

Gli alcunché quindi sono residuali nella duplice modalità prospettica e archetica.

Questi caratteri fanno sì che l’eventualismo, nelle sue due modalità prospettica e archetica, consideri sia l’esseicità degli alcunché sia la dimensione prospettica su di essi; da qui la distinzione che è stata formulata tra alcunché prospettici e alcunché archetici; entrambi sono residuali, ma in modo differente: da un lato, residuali rispetto alle prospettive e, dall’altro, residuali rispetto alla dinamica tra attualità, inalterità e inattualità all’interno dell’eventualità archetica.

La concezione eventualista che è stata presentata permette anche di individuare, anche se in questa sede solo in modo schematico, il tema dei livelli del reale.

Nelle parti precedenti il reale è stato considerato come l’insieme di tutti gli alcunché che a loro volta sono formati da costituenti e da relazioni che generano la loro matrice relazionale. Si può ritenere che molti alcunché possiedano un’analoga matrice relazionale per cui escludendo alcune relazioni si possono includere in una stessa classe di alcunché, proprio come accade nelle usuali classificazioni scientifiche, come quella che contiene tutti gli atomi o quella che contiene solo gli atomi di idrogeno. Se il processo di analisi si approfondisce includendo i costituenti e le relazioni proprie di ogni alcunché appartenente ad una classe, allora, è possibile distinguere tra diverse classi di alcunché. Tale distinzione, secondo quanto indicato in precedenza si fonda sulla tipologia delle relazioni interne ad ogni alcunché e quindi a tutti gli alcunché. Questo criterio di individuazione di classi di alcunché permette di sostenere che vi siano un gran numero di porzioni di reale che sono molto diverse tra loro. In che cosa consiste la loro diversità? Questa diversità risiede nella diversità delle matrici relazionali di ogni classe di alcunché per cui si può sostenere che i diversi reali, o le diverse porzioni di reale, microscopiche o macroscopiche, si differenziano in base alle diversità delle matrici relazionali. Questo criterio è analogo a quello che si usa nella conoscenza ordinaria e in quella scientifica, ma esso non chiarisce se queste classi costituiscano livelli di reale. In quale modo allora le classi di alcunché possono essere considerati come livelli di reale?

Il termine livello in questo caso ha significato di valore ontico secondo cui una porzione del reale è di livello diverso rispetto a un’altra o ancora una porzione di reale è di livello ontico superiore rispetto a una altra. Tale superiorità di livello ontico delle porzioni di reale può essere considerata tenendo conto dell’eventualità/complessità; una porzione di reale costituisce un livello di reale se ogni alcunché che ne fa parte possiede, in modo più o meno completo, la stessa matrice relazionale. Proprio come accade per la porzione di reale delle particelle che costituiscono il nucleo atomico. Possedere una matrice relazionale significa che gli alcunché di tale porzione di reale possiedono analoghe relazioni al loro interno e analoghe al loro esterno e in tal modo formano un tipo di reale omogeneo con una determinata complessità: questa porzione di reale costituisce un livello che si può concepire come un tessuto di reale: un tessuto di reale è una porzione di reale con determinati caratteri derivati dalla matrice relazionale che è prevalente, anche non sempre è eguale, negli e tra gli alcunché che ne fanno parte. Il reale, allora, si può considerare come costituito da diversi tessuti ontologici che sono differenti tra loro, nel senso indicato, ma che, da un lato, sono anch’essi eventuali, e dall’altro, si relazionano tra loro. Questi tessuti di reale si possono considerare all’interno di una prospettiva gerarchica per cui alcuni sono di livello superiore rispetto ad altri? Ritengo che ciò sia possibile e tale gerarchia è stabilità ancora una volta dalla complessità della matrice relazionale. Questo criterio indica che due tessuti di reale sono di livello diverso a seconda della complessità della matrice relazionale e in particolare della struttura delle relazioni di un alcunché o più in generale di ogni tessuto di reale che possiede una determinata matrice relazionale.

La concezione eventualista, che è stata presentata, evita le due fallacie della riduzione antirealista del reale e della assenza del soggetto: la parallela presenza degli alcunché prospettici e degli alcunché archetici fa sì che sia legittimo analizzare il reale, nelle tre modalità d’esistenza, da un lato, non implicando l’osservatore e quindi rivolgendosi al reale archetico; dall’altro, coinvolgendo l’osservatore, e quindi analizzando il reale prospettico; da qui anche la possibilità analitica ed epistemologica di considerare le diverse e possibili relazioni in differenti condizioni tra reale archetico e reale prospettico: la concezione eventualista supera la dicotomia tra soggetto e oggetto, inserendoli in un unico campo di indagine in cui si rileva la presenza dell’uno e dell’altro e le loro relazioni.